La pelle
chiede pietà, bruciante in colori
innaturali.
In fuga qui in
patria sole. E in questo estremo lembo di
terra che si getta ad oriente, cerco
rifugio, aggrappandomi a desertiche
aspirazioni come unici percorsi possibili.
Mi ha resa sterile l’incapacità di
attendere. E avrei dovuto sapere che
questa insofferenza che mi rincorre, è
figlia della rabbia che si cela in fondo
al cuore. E fa male ogni cosa, come la
sabbia che trabocca dalle orecchie, e le
notti stellate senza desideri… e la voglia
di un pianto, liberatorio, perché questa
solitudine ricercata ha bisogno del suo
momento di tragicità.
Mi asciugo la
testa con lentezza, e riversa sul letto
come sfinge, punto lo sguardo cieco alla
luce filtrata e sento il mare e la sua
voce. Abbandono il capo sul bordo e
immagino l’infinità di colori che
accompagna lo srotolarsi morbido
dell’enigmatica campagna salentina fino al
mare. Colori di terra che pulsa, e nel
mezzo gli affioramenti della rossa bauxite
come viscere sottratte al corpo e riverse
nello splendore della luce che le rende
vive… una fossa, una forza, che risucchia
nel centro esatto del cuore della terra.
Il suono composito della
cittadella turrita, si confonde con le
ombre che si rincorrono sul soffitto, in
questa stanza, su questo letto, a tessere
pensieri origami, dove il tempo non ha
necessità di scorrere, e una cadenza
malinconica ricorda che non c’è più nulla,
nessuna promessa, nessuna frivolezza.
Come fare a spiegare che
c’è un vuoto che non può essere colmato,
perché non lo vuole e ne si contenta?
Chiedi. Chiedi perché la
meschinità nella sua pochezza colpisce
indifferente il più fragile, perché si
nutre di ingenua debolezza, perché divora
i sospiri... e non avrai risposta, perché
non esiste logico pensiero, se non una
barbarica superficialità.
Non c’è più un solo
desiderio che possa diventare reale, ho
solo questa sventura che rattrista l’aria
tutta intera. E una sola certezza: il
tradimento peggiore è elargire illusioni,
e l’illusione peggiore è credere d’essere
immuni al dolore.
Tiro
su
le gambe in verticale, graffi ormai
impercettibili provocati da solitari rovi
nell’alta erba selvatica dei campi, in
ascesa, martirio salvifico in onore
dell’uomo che non c’è più, fino ad
arrivare alla Torre del Serpe in secolare
contemplazione dell’invasore, e poi una
discesa rapida e ripida verso la costa
tormentata dal mare, che dolcemente mi
riporta alla Porta d’Oriente. Cielo cupo e
all’orizzonte il profilo d’Albania, chiaro
come mai, sembra un’isola che evoca
misteri, un’isola da raggiungere.
Ripenso
e
rivivo, e mi dico che non sono fatta per
sostare, ma per rimanere, ho bisogno di
guardare. Guardare un mare agitato con
onde semidivine da affrontare. Guardare il
vento che taglia pietre. E facce.
Questa
storia
dei legami non funziona più, nemmeno
quelli ideali hanno un senso. Si è rotto
un delicato equilibrio, in me, nel mondo,
e si erge a simbolo la forza della natura,
dell’urto, che travolge la piccolezza
dell’uomo, che vanifica il suo sforzo. In
qualche modo, mi piace pensarlo e
desiderarlo, la purezza vince sempre, e
brilla nei miei occhi l’idea di un mondo
senza uomini.
Mi
convinco che sia la fine di tutto, che
siamo ai confini tra il mondo civile e
quello del sopravvivere… e ho il vago
ricordo delle sensazioni vissute, che si
cancelleranno da sole, sostituite da
chissà quali altre disavventure.
Incredibilmente, il tempo è volato così in
fretta, che non è possibile distinguere
tra quello che è accaduto e quello che ho
desiderato. Perché forse era desiderio che
accadesse, ed ancora adesso faccio fatica
ad entrare nel reale, e mi confondo, e mi
confonde. La verità è nel mezzo, ma non
conosce mezze misure!
Le
parole che si fermano in gola, sono frutto
di un pensiero congelato e mal riposto.
Mi
tiro su, busto dondolante al centro del
letto, come mossa da un pensiero da
catturare, e volgo il capo verso
l’immagine di un nuovo sogno che tento di
stringere tra le dita, che mi rimanda agli
occhi suoi belli. E che belli erano i
nostri sguardi, il mio intimorito, ed il
suo indagatore.
Leggero
leggero,
dentro di me, lo sento scavare,
appropriazione desiderata. Ci capivamo
appena, ci desideravamo senza parlare,
eppure in quei cenni c’era tutto il nostro
mondo, il mio ed il suo silenzio.
Una
carezza sul mio capo per aiutarmi a
sognare. Ma quanta amara ricchezza ho
accumulato nel dolore. E tutto il bene, lo
conserverò con tutto il male che porta con
se il ricordo.
E nell’incanto
dipinto nei miei occhi. Perché me ne starei qui,
distesa e moribonda, su questo letto blu
ad aspettare un uomo che interpretava per
me, in modo fasullo ma convincente, lo
spettacolo dell’amore idilliaco!
Casco,
pesante, sulle lenzuola sfatte, e penso al
mare agitato e ad un telefono che suona.
Guardo il soffitto rivestito dai decori
dei miei pensieri, e immagino il percorso
della mia mano che scende giù tra le gambe
aperte. Lo sfavillio di un caldo bruciante
ed assetato, che saziato il suo desiderio
lascia il posto a cristalli gelidi.
(Solo questo pensiero
vorrei che t’arrivasse, e vorrei che
t’arrivasse carico di quest’aria che
s’assottiglia: da quando sei andato via,
ancora una volta e nel solito modo
offensivo, faccio l’amore con il fantasma
di te ogni singolo giorno.)
Rimango intorpidita dal
godimento e dalla tristezza che arriva
rapida a gonfiarmi gli occhi di lacrime
che non cadranno. Allungo un braccio nel
blu delle lenzuola, e aspetto. Aspetterò quando
come sipario calato arriverà la sera, e la
luce che scomparirà lenta all’orizzonte
porterà quiete, placherà i tormenti, e più
dolce sarà abbandonarsi alla malinconia…
s’accenderanno fiammelle lontane, e
bruceranno negli occhi velenose speranze.
E chiudendo gli occhi appesantiti dal
sonno immaginerò il leggendario serpente
marino che cauto salirà lungo la pietra
per bere l’olio nella lanterna della
torre. E mi farò cullare dai sogni e dai
tormenti di quello che mai sarà… e ancora,
attenderò l’arrivo di un nuovo giorno e
una nuova rotta verso castelli federiciani
svettanti come cime irraggiungibili di
perfezione, o quelli aragonesi di bionda
pietra… ricordi che non saranno mai nostri
ma solo miei… e ripenso con turbamento al
Forte a Mare brindisino, disperso come
relitto di nave, che grida il suo dolore
abbandonato su di uno sfondo di brillante
cobalto, triste nel logorio del tempo che
passa e ne mangia la consistenza,
silenziosamente, nel vento. E trova li la
sua dimora, lo spettro della mia anima
triste, che si confonderà con
l’inquietudine di quel luogo vittima
anch’esso dell’indifferenza.
Si alza il
vento, e con esso la speranza.
Gli innamorati
che si baciano sulla spiaggia mi fanno
soffrire. Colpa del malamore. E di questo
letto mezzo vuoto che si disattende.
|